genitori-e-figli-infanzia-e-adolescenza

Non c’è un manuale su come essere genitori, ci sono svariate ricette a seconda della prospettiva assunta, ci sono tanti consigli ricevuti da amici o dai nonni a seconda del problema. Si dice sia il lavoro più difficile al mondo,  la verità è che non esiste un’unica verità ma ognuno deve trovare il proprio equilibrio in funzione dei bisogni del bambino/ragazzo e del/dei genitori. Lungi dalla pretesa di insegnare qualcosa e consapevoli delle difficoltà di intervenire in sistemi così complessi,  possiamo però fare alcune considerazioni sia teoriche che pratiche.

E’ bene essere amici dei nostri figli?

I bambini fin da piccoli hanno bisogno di essere accuditi e nutriti sotto tutti punti di vista, hanno bisogno di essere guidati e accompagnati, hanno bisogno che qualcuno ponga loro dei limiti all’interno dei quali loro si sentano sicuri e protetti. Hanno bisogno di essere stimolati e di chi è questo compito se non del genitore? Pensate a come voi siete diventati le persone che siete oggi….molto probabilmente attraverso i feedback delle altre persone avete creato e mantenuto l’immagine di voi stessi e guidato il vostro comportamento. I più scettici potrebbero obiettare che si sono formati da soli ma sappiamo che attraverso la comunicazione siamo in continuo e costante contatto con le persone intorno a noi e al nostro ambiente e ne siamo costantemente influenzati, infatti è impossibile non comunicare per il semplice fatto che non esiste un opposto al comportamento. Anche il non fare nulla in silenzio è comunque comunicare qualcosa alle persone intorno a me…

Watzlawick scrive che ogni comunicazione ha un aspetto di contenuto ed uno di relazione. Il primo si riferisce al contenuto del messaggio trasmesso, ad esempio un comando (parte digitale), il secondo invece è dato da una grande serie di variabili che rappresentano tutti gli aspetti non verbali della comunicazione (messaggio analogico). Gli aspetti non verbali della comunicazione definiscono anche il tipo di relazione tra due interlocutori che inevitabilmente potrà essere simmetrica o complementare cioè basata sull’uguaglianza o sulla differenza. L’amicizia ad esempio, al pari di una relazione di coppia prevede una relazione simmetrica (con uguale potere) di pari livello e basata sull’uguaglianza.

Sapere cosa possiamo e cosa non possiamo fare ci rende liberi di esprimerci anche nella direzione di contravvenire ad un divieto, come spesso accade nella fase in cui il bambino, dai due anni di vita, inizia a sperimentare la propria autonomia. Il non avere limiti impedisce la possibilità di superarli e di confrontarsi con l’adulto in un processo di graduale differenziazione/individuazione.”(Bartoletti, 2017).

Come posso io bambino sapere se sono stato bravo e capace? Probabilmente se riconosco me stesso e il mio comportamento all’interno di certi limiti che mi sono stati dati e grazie ai quali costruisco sia la mia immagine sia le relazioni con gli altri. Se ho superato la linea ho sbagliato, se sono stato dentro sono degno di fiducia, di rispetto, ho meritato questo ecc…  Un bambino senza regole è un bambino incapace di relazionarsi con gli adulti ma anche con i coetanei, un bambino sempre alla ricerca dei limiti, sfidante e provocatorio, costantemente alla ricerca di quei segnali che possano dirgli chi è, se è stato bravo o meno, se è stato capace o meno… Se questi limiti (definiti in base ai soggettivi valori familiari) non ci sono o non sono fatti rispettare, come potranno il bambino prima, e l’adolescente poi, creare la propria immagine di loro stessi e la propria autostima? Una sana gerarchia familiare basata sull’autorevolezza (non sull’autoritarietà) è perciò necessaria per questo motivo. Si tratta perciò di una relazione complementare (definita da poteri diversi). Il difficile compito del genitore sarà quello di oscillare tra momenti e periodi in cui sarà più “vicino” (come un amico) e momenti in cui si allontanerà per far rispettare un comando o una regola. Quello che spesso si riscontra in quei bambini oggi tanto facilmente etichettati con diciture psichiatriche, è una quasi totale assenza di gerarchia familiare oppure casi in cui c’è una gerarchia intermittente per cui il messaggio che arriva al bambino è comandiamo noi (genitori) ma a volte comandi tu.  Cit:”…fin da piccoli i bambini hanno una percezione epidermica delle relazioni di potere…ai bambini non piace comandare, come le maestre sanno bene, i bambini preferiscono essere guidati che guidare, e che il potere sia nelle mani dell’adulto. I bambini che riescono a comandare gli adulti sono nervosi e irritabili, mentre i bambini che trovano negli adulti una guida sicura sono invece tranquilli e rilassati. Di fronte ad un adulto in grado di “metterlo in riga”, il bambino non diventa solo ubbidiente ma soprattutto sereno. Rousseau scriveva: “la peggiore  educazione per un bambino è lasciarlo ondeggiare tra la sua volontà e la vostra e gareggiare continuamente tra voi e lui a chi sarà il padrone”.

Come le onde del mare sul bagnasciuga il genitore deve essere in grado di alternare momenti di vicinanza amichevole e distanza per autorevolezza

In conclusione se le “regole del gioco” non sono ben definite io non solo non capisco a cosa stiamo giocando ma non avendo feedback dagli altri su come sto procedendo non sarò in grado di capire se sto facendo bene o meno, non sarò in grado di comprendere se sono capace o meno, attraverso il mio comportamento (percepito dagli altri come confusionario e magari provocatorio e irrispettoso) cercherò di capire se sono giusto o sbagliato.

cit: “William James scrive: “Se fosse realizzabile non ci sarebbe pena più diabolica di quella di concedere ad un individuo la libertà assoluta dei suoi atti i una società in cui nessuno si accorga mai di lui”. Non c’è il minimo dubbio che una situazione simile porti alla perdita del Sé che non è altro che la traduzione del termine “alienazione”.

Per questi motivi nell’analizzare una situazione definita “problematica” di un bambino o di un adolescente (e non solo) sarà fondamentale analizzare tutto il contesto (e non etichettarlo solamente con il rischio di creare una profezia che si auto-avvera) poiché è probabile che il comportamento del bambino/adolescente sia composto da risposte e comportamenti corretti per quel suo determinato contesto. Cioè è probabile che il comportamento sia spiegato dai feedback ambientali che arrivano a lui ad esempio: la totale mancanza di regole e gerarchie.

I comportamenti dei bambini non sono normali o anormali. Spesso analizzando il contesto risultano come gli unici possibili

Queste considerazioni ci riportano necessariamente ai concetti di “normalità” e “anormalità” con i quali spesso etichettiamo bambini e adolescenti. Watzlawick scriveva più di quarant’anni fa a proposito di comportamenti definiti patologici a proposito di “normale” e “anormale”: “la schizofrenia considerata come una malattia incurabile e progressiva della mente di un individuo e la schizofrenia considerata come l’unica reazione possibile a un contesto di comunicazione assurdo e insostenibile sono due cose del tutto diverse, che differiscono profondamente per l’incompatibilità delle due strutture concettuali, anche se il quadro clinico a cui esse si riferiscono è lo stesso in tutti e due i casi”; “una volta che si sia accettato il principio per cui un comportamento si può studiare soltanto nel contesto in cui si attua, i termini sanità e insanità perdono praticamente il loro significato in quanto attributi di individui”.

Detto questo, nell’analizzare una situazione problematica adolescenziale ad esempio una definizione di disturbo oppositivo-provocatorio sarà necessario, invece di andare a cercare le presunte cause passate (cadendo necessariamente in interpretazioni soggettive) analizzare come la problematica si “alimenta” e si mantiene nel proprio sistema interattivo comunicativo e forse sarà possibile scoprire che un ragazzo etichettato come “malato” o “disturbato” non fa altro che mettere in pratica le uniche risposte possibili relative al proprio contesto. Così si muove primariamente uno psicologo strategico.

  • LA PUNIZIONE

Cit.    “…la punizione quando è meritata permette ai genitori di ottenere due effetti importantissimi: da un lato svolgere fino in fondo la propria funzione educativa, insegnando al figlio che nella vita bisogna meritarsi le cose e che queste non sono scontate; e al tempo stesso, dimostrando di essere autorevoli, punti di riferimento saldi su cui contare in caso di bisogno…”. “…la relazione genitori/figli diventa così un gioco a somma diversa da zero, in cui entrambi “vincono” nel comune percorso di crescita che porterà il bambino prima, e il ragazzo poi, a sviluppare le proprie capacità e il proprio senso di responsabilità divenendo un adulto equilibrato e sereno”.

E’ necessario che un genitore sia autorevole e non autoritario. L’autorevolezza fornisce una guida, una strada sicura, l’autorità è il metodo migliore per stimolare la ribellione. Se il genitore sarà capace di essere autorevole e alternare vicinanza e distacco, il figlio probabilmente lo cercherà quale punto di riferimento per affrontare le difficoltà (es: adolescenza), se sarà stato autoritario probabilmente sarà preso come modello per fare esattamente l’opposto.

  • L’AIUTO NON RICHIESTO SI TRASFORMA IN DANNO

“Quando i genitori fanno troppo per i loro figli, i figli non fanno abbastanza per loro stessi” Helbert Hubbard.

Se fino a mezzo secolo fa lo stile familiare prevalente era quello autoritario (per cui si è creata una generazione di ribelli), pare che ora lo stile più in voga sia quello di famiglia iperprotettiva per cui i genitori intervengono in ogni tipo di difficoltà dei figli talvolta anche anticipandola. Se è vero che da genitore non vorrei mai vedere mio figlio soffrire è vero anche che so che è attraverso l’errore che potrà apprendere e sarà in grado di crescere. Se nel momento in cui un bimbo dovrà imparare a camminare o imparare ad andare in bici, il genitore sarà sempre pronto a sostenerlo ad ogni perdita di equilibrio per non farlo cadere e non fargli sentire dolore è anche vero che non imparerà nulla. Come facciamo ad imparare e a migliorarci se non attraverso l’errore e le cadute?

“Accompagnare” un bambino o un ragazzo significa allora anche, in alcuni casi, non intervenire; rimandare indietro la responsabilità delle proprie scelte ed essere disposti a correre il rischio che sbagli, perché solo così possiamo offrirgli la possibilità di diventare un adulto responsabile e in grado di scegliere e di correggere eventualmente le proprie scelte.

Questo è il motivo per cui oggi spesso i genitori con le migliori intenzioni creano i danni peggiori. Se inevitabilmente “riempiono” tutti gli spazi dei figli, come potranno essi sperimentarsi e mettersi alla prova? Se tutto è dovuto e scontato, come saranno in grado di godersi le proprie conquiste, come saranno motivati ad impegnarsi e lottare per i propri obiettivi? Come potranno infine sentirsi capaci e indipendenti?

L’autostima non si regala e anche con le migliori intenzioni non può essere trasmessa ai figli, l’unico modo è costruirla sulla propria personale esperienza.

Si comprende bene allora che se un genitore occuperà tutti gli “spazi” ed eviterà costantemente che il figlio cada, credendo di aiutarlo, toglierà lui tutte quelle occasioni fondamentali per la crescita personale e per la messa in stabilità di quei mattoni che formeranno poi l’autostima del figlio.

Una buona relazione e quindi un buon insegnamento, con il fine di creare persone indipendenti capaci, è quella di “insegnare a pescare” e “non pescare per loro”.

Credo che un obiettivo comune sia quello di crescere bambini che poi diventeranno indipendenti, capaci di affrontare problemi e superare le difficoltà. Dobbiamo ricordare che i genitori “più ben voluti” sono quelli che hanno accompagnato ma poi hanno saputo “staccarsi” nei momenti giusti. Ricordare sempre che non è la quantità di tempo che trascorriamo con i nostri figli ma la qualità e per non rischiare di “creare” bambini e adolescenti incapaci, dovremmo impegnarci ogni giorno a creare loro dei piccoli ostacoli poiché il riuscire a superarli sarà per loro il costruire le fondamenta del loro palazzo e della propria capacità e autonomia.

CiT:”…anche nella terapia dei bambini con disturbi molto gravi, come autismo infantile, Erickson preferisce non prendere in considerazione il loro bisogno di affetto…presuppone invece che la loro insicurezza derivi soprattutto dalla loro incerta conoscenza dei limiti che non devono superare, la terapia quindi, consiste nell’evidenziare questi limiti”

“Quando rimasi solo con la madre le parlai del desiderio del bambino di vivere in un mondo nel quale fosse certo che c’era qualcuno più forte e più potente di lui, anche se fino a quel momento era riuscito a dimostrare in maniera sempre più esasperata che il mondo era così insicuro e che l’unica persona forte fosse lui, un ragazzino di otto anni” (Haley, 1973)

Dott. Fratagnoli Psicologo Psicoterapeuta ad Arezzo e Asciano (SI)

Riferimenti bibliografici:

Bartoletti, M. (2017), Cambiare per crescerli. (Italian Edition) (posizioni nel Kindle 120-121). Ilmiolibro self publishing. Edizione del Kindle.

Haley, J. (1973), Terapie non comuni. Tecniche ipnotiche e terapie della famiglia. Astrolabio.

Nardone, G. (2012), Aiutare i genitori ad aiutare i figli, Ponte alle Grazie, Milano.

Nardone G., Rocchi E., Giannotti E. (2001), Modelli di famiglia. Conoscere e risolvere i problemi tra genitori e figli, Ponte alle Grazie, Milano.

Watzlawick, P., Beavin J. H., Don D. Jackson (1971) .Pragmatica della comunicazioneStudio dei modelli interattivi delle patologie e dei paradossi, Astrolabio, Roma.