Vanno di moda le etichette perché da una parte rassicurano: “hanno scoperto cos’ho, se hanno scoperto cos’è allora lo conoscono e allora conoscono anche la soluzione” (cosa non affatto scontata); dall’altro trovare un etichetta tranquillizza perché ci offre ordine, incasella l’informazione e schematizza. Etichettare però, soprattutto in campo psicologico, corrisponde anche ad una perdita di responsabilità: “ho un disturbo, mi hanno scoperto un disturbo”, come se non potessi farci nulla , come se fosse un difetto fisico o genetico del quale non solo non siamo responsabili ma soprattutto contro il quale non possiamo nulla. Parliamo ad esempio dell’etichetta diventata superstar tanto da essere usata anche nel comune parlare ovvero “depressione”. Un recente studio di meta-analisi condotto da Joanna Moncrieff e Mark Horowitz ha dimostrato, come già qualcuno aveva fatto in passato, che suddetto disturbo non è legato ai livelli di serotonina. Immaginiamoci ora quanti medici anche di base abbiamo diagnosticato e quindi prescritto farmaci antidepressivi che agiscono sulla ricaptazione della serotonina (perché creduta unica e suprema causa di tutto). La teoria che la depressione e ogni altro disturbo psicologico sia causato da uno squilibrio chimico (come vorrebbe certa psichiatria) è pericolosa e non corretta.
Il punto è che l’etichettamento è figlio del sistema economico e di marketing nel quale siamo immersi poiché spesso finalizzato ad alimentare la credenza che esista un prodotto, una medicina, una pillola magica da comprare….che mi guarisca. Quando parliamo di difficoltà o disturbi psicologici parliamo nella stragrande maggioranza dei casi di problemi riconducibili alle relazioni che abbiamo con noi stessi, con gli altri e con il mondo esterno in genere, e che si esplicano in dinamiche circolari nelle quali abbiamo molta responsabilità e per tale motivo possiamo avere molto margine di azione in ottica di cambiamento, miglioramento o “guarigione”. Anche per questi motivi, etichettare ad esempio con un nome diverso ogni forma possibile di fobia, non solo è inutile (perché tutte le fobie si fondano su medesimi meccanismi) ma rischia di aumentare il senso d’incapacità di chi ne soffre e aumenta l’esigenza di dover cercare una pillola magica specifica da comprare. Ecco allora che compaiono nuovi nomi con suffisso –fobia. Il rischio concreto è di delegare al farmaco (per poi rimanerne dipendente a vita) qualcosa che posso cambiare solo se mi prendo la responsabilità di cambiare qualche mio comportamento. Chiaramente farmaco “aspecifico” cioè che funziona per tutto, e se funziona per tutto, non funziona per niente…
Come spesso faceva il mio maestro, quando ad inizio terapia mi trovo a parlare con un paziente che chiede ansiosamente il nome del proprio disturbo dico sempre: “te lo dirò appena lo abbiamo risolto” e nella maggior parte dei casi ce la facciamo assolutamente senza farmaci.
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